Per gli occidentali le elezioni sono il sacro perno della democrazia. Quando le vinciamo noi o i nostri amici. Se invece le vincono gli altri non valgono più. E' storia vecchia e quanto sta accadendo in Egitto ne è la riprova. Il precedente più noto è l'Algeria. Nel 1991 le prime elezioni 'libere', dopo trent'anni di una sanguinaria dittatura militare, furono vinte dal Fis (Fronte islamico di salvezza) con una schiacciante maggioranza del 47% (aveva già vinto le amministrative dell'anno prima col 54%). Ma si stimava che al ballottaggio avrebbe raggiunto i due terzi dei consensi con l'apporto dei partiti islamici minori. Allora i generali tagliagole, con l'appoggio dell'intero Occidente, annullarono le elezioni sostenendo che il Fis avrebbe instaurato una dittatura. In nome di una dittatura del tutto ipotetica si ribadiva quella precedente. Tutti i principali dirigenti del Fis furono messi in galera o assassinati. Cosa succede in un Paese quando la stragrande maggioranza della popolazione si vede derubata del voto? Una guerra civile. I gruppi più decidi del Fis costituirono il Gia (Gruppo islamico armato) che diede vita a una guerriglia durata anni e costata 200 mila morti, in maggioranza civili. Ma non erano tutti addebitabili al Gia. Anzi. Mohamed Samraoui, numero due dell'antiterrorismo, riparato in Francia, in un libro del 2003 ('Cronache di un anno di sangue') ha rivelato come molte stragi attribuite al Gia fossero opera di reparti speciali dell'esercito, camuffati da estremisti islamici, per indirizzare l'odio della popolazione sui guerriglieri.
In Egitto le prime elezioni libere, dopo decenni di dittature militari, sono state vinte dai Fratelli Musulmani e il loro leader, Morsi, è diventato premier. Dopo un anno ci sono state alcune sommosse di piazza che chiedevano la cacciata di Morsi e dei Fratelli. Ciò che si rimprovera a Morsi non è di avere instaurato una dittatura o di aver varato leggi liberticide in salsa islamica, ma l'inefficienza. A questa stregua, in Occidente, qualsiasi governo potrebbe essere legittimamente abbattuto con la violenza di piazza. I generali tagliagole egiziani, proprio quelli che, con l'appoggio degli americani, avevano sostenuto la dittatura di Mubarak, han preso pretesto da queste manifestazioni per cancellare l'esito delle elezioni, arrestare Morsi con i suoi principali collaboratori, ribadire la propria dittatura e dare il via a una repressione che marcia al ritmo di un migliaio di morti la settimana, cosa che nemmeno Assad potrebbe permettersi. E il democratico Occidente? A botta calda dopo il primo massacro ferragostano (600 morti) Emma Bonino, il nostro ministro degli Esteri, si è detta "preoccupata per la violazione dei diritti umani". Gli americani non hanno proferito verbo. Hollande e Merkel si sono rimessi alla Ue che ha deciso di non decidere.
Di fronte a questa vergognosa ipocrisia dell'Occidente ci piace dar conto del comunicato diramato dall'Emirato isalmico d'Afghanistan del Mullah Omar: "Nel condannare con fermezza l'azione disumana e non etica delle forze di sicurezza affinché si arresti lo spargimento di sangue di donne, bambini e anziani innocenti pensiamo che i militari e il governo egiziani debbano preparare il cammino per il ritorno del presidente costituzionalmente eletto in modo da impedire alla situazione di andare ulteriormente fuori controllo".
A furia di calpestare, in nome della realpolik, i loro sacri principi, agli Occidentali tocca farsi impartire lezioni di etica istituzionnale, e non solo, anche dai Talebani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2013
Dai e ridai ci sono finalmente arrivati. L'ambizione della scienza moderna e della medicina tecnologica è di farci sapere, con largo anticipo, la data della nostra morte. Adesso, a quanto pare, ci siamo. Gli autorevoli scienziati dell'Università di Lancaster hanno messo a punto uno studio sulle cellule endoteliali, "il serbatoio di tutte le potenziali cellule staminali" come scrive Edoardo Boncinelli sul Corriere della Sera. Da questo esame si può misurare, con buona approssimazione, la loro durata e quindi la durata della nostra vita. Per ora la cosa riguarda il ristretto cerchio degli adepti che ci stanno lavorando, ma nel giro di due o tre anni, assicurano gli scienziati di Lancaster, il metodo sarà perfezionato, riproducibile su larga scala e a dispozione di tutti.
Ma che bella festa. Noi uomini, fra gli animali del Creato, siamo i soli ad avere lucida consapevolezza della nostra fine, ma Madre Natura, pietosamente, ha fatto in modo che non si sappia quando arriverà. In 'De senectute' Cicerone dice, una volta tanto giustamente, che "non c'è uomo, per quanto vecchio e malandato che non pensi di poter vivere almeno ancora un anno". Toglierci queste illusioni è devastante (la pena di morte, sia detto per incidens, è inaccettabile non perché si uccide un uomo - durante le guerre, le insurrezioni, le rivoluzioni se ne fanno fuori a decine, a centinaia di migliaia, a volte a milioni - ma perché è una tortura dato che il condannato è l'unico a sapere l'ora precisa della sua morte). Se si dicesse a un ragazzo di trent'anni che morirà ad ottanta, costui vivrebbe cinquant'anni di angoscia, un'angoscia crescente e insopportabile man mano che si avvicina la data fatidica.
Una volta a 'Sottovoce' Gigi Marzullo mi chiese: "Se sapesse di avere ancora poche ore di vita come le impiegherebbe?" "Mi sparerei" risposi. E al cosiddetto 'Questionario di Proust' che viene sottoposto a intellettuali, a scrittori, ad artisti, a personaggi di vario genere, alla domanda "Di che morte preferirebbe morire?" risposi: "Violenta". Perché la morte violenta è affidata al Caso, sfugge alle certezze di quella biologica e frega i sinistri vaticinii degli scienziati della morte. Ha detto l'entusiasta Boncinelli a Fahrenheit, la bella trasmissione di Radio 3: "Sapere la data della nostra morte ci consentirebbe di assaporare ogni giorno che manca a quel fatidico appuntamento". Se fossimo tantino saggi noi dovremmo vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo, ma senza sapere che lo è. Dice Friedrich Nietzsche: "Amleto, chi lo capisce? Non è il dubbio ma la certezza che uccide".
I Greci, che avevano una concezione tragica dell'esistenza, pensavano che al Fato non si può sfuggire. Molti loro Miti sono centrati su questa fatalità (da Fato, appunto). Ma non si sono mai sognati di credere che fosse individuabile l'ora in cui la mannaia sarebbe caduta. I Latini, che erano un po' più solari, lasciano ampi margini di incertezza ai vaticinii dei loro àuguri. "Ibis redibis non morieris in bello" profetizza la Sibilla Cumana ad un soldato che le era andato a chiedere se sarebbe tornato vivo dalla guerra. Tutto dipende da dove si mette la virgola, se dopo 'redibis' o prima. In un caso la frase suona: "Andrai ritornerai, non morirai in guerra". Nell'altro: "Andrai, non ritornerai ('redibis non') morirai in guerra".
La scienza moderna invece rifiuta le incertezze, il dubbio, il Caso. I profeti di sventura di oggi, gli scienziati, non si limitano a dirci che moriremo - questo lo sappiamo tutti, anche troppo bene, non abbiamo bisogno di loro - ma pretendono anche di fissare il quando. A costoro auguro di sperimentare innanzitutto su di sé il loro metodo demenziale. E di morire, di paura, molto prima della data, scientificamente accertata, dei propri mostruosi vaticinii.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 22 agosto 2013
La nuova parola d'ordine adesso è 'pacificazione nazionale'. Ogni dieci anni i cittadini italiani sono perentoriamente invitati a 'pacificarsi'. Con chi? Con i delinquenti. Negli '80 con i terroristi assassini. E, di fatto, questo avvenne grazie a quelle leggi sui 'pentiti' che la cosiddetta classe dirigente fu costretta a varare per non aver saputo, o voluto, affrontare sul campo, 'manu militari', il fenomeno terrorista, essendone anzi stata connivente in alcune sue componenti, politiche e intellettuali, specialmente socialiste. Ragion per cui da noi il terrorismo, a differenza, poniamo, che in Germania dove pur si era presentato in forme ancora più pericolose (la Baader-Meinhof), è durato invece che un anno dieci, facendo tutti i danni che poteva fare. Persino Adriano Sofri, mandante del vilissimo assassinio del commissario Calabresi (agguato sotto casa) condannato, dopo aver goduto di tutte le garanzie immaginabili e anche non immaginabili (un processo di revisione, fatto rarissimo in Italia), a 22 anni di reclusione, prima è diventato, per meriti penali, editorialista del più importante quotidiano di sinistra (La Repubblica) e del più venduto settimanale di destra (Panorama) e poi di quei 22 anni ha finito per scontarne, con vari escamotage, solo sette. Destra e sinistra, ormai lo sappiamo, si ricompattano immediatamente quando c'è da togliere dai guai un loro vip.
Negli anni Novanta dovevamo pacificarci con i ladri e i taglieggiatori di Tangentopoli. La formula era: "uscire da Tangentopoli" con un'amnistia o con qualche provvedimento similare. Come se amnistiando i ladri, i truffatori, gli stupratori si uscisse da Ladropoli, da Truffopoli, da Stupropoli e non si incoraggiasse invece costoro a perseverare nei loro crimini. Com'è puntualmente avvenuto dopo aver trasformato, nel giro di pochissimi anni, i magistrati nei veri colpevoli e i ladri in vittime e giudici dei loro giudici. Oggi non c'è settore della vita pubblica in cui la Magistratura vada a mettere il dito, random, a caso, senza che saltino fuori malversazioni, grandi e piccole. E' come giocare a 'battaglia navale', con ammiraglie, incrociatori e sommergibili, ma senza il mare.
E adesso dovremmo 'pacificarci' con un uomo che (con la sua cricca) da trent'anni viola sistematicamente le leggi, organizza monopoli illegali e antiliberisti, falsifica i bilanci, paga la Guardia di Finanza, corrompe giudici, corrompe testimoni, è stato condannato, sia pur in primo grado, per un reato di concussione di cui non potrà liberarsi perché, nel suo caso, la concussione è 'in re ipsa' (le telefonate alla Questura di Milano per piegarne i funzionari ai suoi 'desiderata').
Ora quest'uomo è stato condannato in via definitiva per una colossale frode fiscale (che è cosa diversa dalla semplice evasione fiscale) ponendo così fine alla sostanziale ipocrisia della 'presunzione d'innocenza' che è un principio sacrosanto del diritto ma che diventa pura e semplice impunità se si riesce, com'è riuscito a Berlusconi, a trascinare i propri processi per decenni.
Adesso c'è una condanna in Cassazione. Di presunzione di innocenza non si può più parlare. La dovrebbe essere finita. E invece no. Quest'uomo, che ha accumulato un potere enorme proprio grazie alle sue illegalità, pretende di essere salvato ancora una volta dalle sue responsabilità. Con qualche formula magica: grazia, commutazione della pena, amnistia 'ad personam'. E così sarà. Nello sberleffo di noi cittadini impotenti e forse anche grati. Perché non siamo che sudditi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2013